Apro questa serie di piccole riflessioni, “altri sguardi”, sul senso del produrre creatività in questo complicato momento, incontrando e chiacchierando con compagni di viaggio, antichi e nuovi, impegnati, appunto, nel mondo dell’arte e della creatività in genere. Spero possa essere un piccolo contributo nel dare nuove suggestioni per tentare di uscire da un’atomizzazione nella quale, mi sembra, ci siamo e ci hanno relegati.
Per una serie di circostanze, comincio con Giacomo Cossio, artista.
Passare in visita nello studio di Giacomo è sempre un’esperienza che ti fa decisamente uscire dalla tua zona di confort, soprattutto per me che ho una visione dell’immagine piuttosto simmetrica, compositivamente ordinata ed ipnotica, come commenta Giacomo stesso. È anche per sentire questo spaesamento che vado a trovarlo sempre con piacere.
Come la sua calda ed avvolgente fisicità etrusca, entrando nella sua “caverna” si viene sorpresi da un’onda psichedelica di colori, forme delle più varie materie, modellini di camion e gru di varie dimensioni, enormi cataste di ritagli di fotografie, ritratti giganti in evoluzione che debordano dalla bidimensionalità della tela e tanto altro che compone un meraviglioso caos in cui forse anche Bacon arrossirebbe.
Giacomo si muove per lo studio contemplando, commentando, strappando volti ed aggiungendo abiti su diverse tele sparse per il grande studio, sempre attento che l’opera non “diventi eccessivamente espressiva perché la cosa non m’interessa”.
Parole intercettate in una ripresa video e che mi sembrano piuttosto interessanti, gli chiedo di chiarirmi questo punto. Mi racconta che, studiando le “esplorazioni” della storia dell’arte del Novecento negli ultimi anni, queste hanno orientato la sua ricerca verso l’uscita dai confini della tela e verso una potente ricerca sulla possibilità di ricoprire la natura stessa (piante, prati, giardini) di un proprio personale colore. Quindi non più la natura idealizzata ed interpretata, ma supporto su cui intervenire direttamente, da impollinare con il suo gesto.
Questo il suo impegno ed il senso del suo fare per ancorarsi ed operare nel “cantiere della contemporaneità” per appartenere al suo tempo e cercando, anche dolorosamente, di abbandonare antiche affezioni che trattengono e cristallizzano in modalità espressive ormai svuotate di vitalità.
Questioni importanti su cui continuare a ragionare e, anche per questo, un autore da seguire per vedere quali altre porte aprirà.
Credo di essere vicino a Giacomo poiché entrambi – per vie diverse, io con la luce e lui con il colore – desideriamo, anche un po’ romanticamente, di dotare il mondo di una nuova pelle. Forse per sentirlo più nostro.
I will open this series of small reflections, “other glances”, on the meaning of producing creativity in this complicated moment, meeting and chatting with travel companions, old and new, engaged, in fact, in the world of art and creativity. I hope it will be a small contribution in giving new suggestions to try to get out of an atomization in which we are and we have been relegated.
For a series of circumstances, I will start with Giacomo Cossio, artist.
Visiting Giacomo’s studio is always an experience that definitely takes you out of your comfort zone, especially me, who has a rather symmetrical, compositionally ordered and hypnotic vision of the image, as Giacomo himself comments. It is also to feel this disorientation that I always go to visit it with pleasure.
Like his warm and enveloping Etruscan physicality, entering his “cave” one is surprised by a psychedelic wave of colors, shapes of the most varied materials, models of trucks and cranes of various sizes, enormous stacks of photo clippings, giant portraits in evolution that overflows from the two-dimensionality of the canvas and much more that composes a wonderful chaos in which perhaps even Bacon would blush.
Giacomo moves around the studio contemplating, commenting on, tearing faces and adding clothes on various canvases scattered around the large studio, always careful that the work doesn’t “become excessively expressive, because I don’t care about it”.
Words, these, intercepted in a video and that seem quite interesting to me. I ask him to clarify this point and he tells me that, studying the “explorations” of 20th century art history in recent years, these have oriented his research towards the exit from the confines of the canvas and towards a powerful research on the possibility of covering nature itself (plants, meadows, gardens) of their own personal color. So, no longer idealized and interpreted nature, but a support on which to intervene directly, to be pollinated with his own gesture.
This is his commitment and the sense of his doing to anchor and operate in the “construction site of contemporaneity”, to belong to his time and trying, even painfully, to abandon ancient affections that hold back and crystallize in expressive modes now devoid of vitality.
Important issues to keep thinking about and, also for this reason, an author to follow to see what other doors he will open.
I think I am close to Giacomo because we both want – in different ways, me with light and he with color, even a little romantically – to give the world a new skin. Perhaps to feel it more ours.
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